martedì 26 gennaio 2010

“LOCUTUS EST IN PARABOLIS” di Giuseppe Ricciotti

«Alcune decine d'anni fa verso il 1870, un celebre personaggio scrisse ed inviò una lettera ad un privato qualunque, che noi chiameremo convenzionalmente il signor Anthropos; la lettera era scritta in italiano, era assai lunga, e trattava di argomenti contemporanei vari, alcuni dei quali assai importanti. Data la celebrità del mittente, alcuni amici chiesero e ottennero dal signor Anthropos il permesso di ricopiar la lettera. Di fatti, ne furono eseguite sia semplici copie, sia traduzioni in varie lingue anche assai differenti dell'italiano, ad esempio in arabo e in giapponese. E fu una fortuna, giacché poco tempo dopo che il sig. Anthropos aveva ricevuto la lettera, avvenne un incendio nel suo studio e il testo originale della lettera andò distrutto.

Rimasero però le copie e traduzioni, che s'andavano sempre più moltiplicando col passare da amico ad amico. Sennonché questi testi ricopiati o tradotti avevano tutti, chi più chi meno, gravi difetti: una copia era stata fatta in gran fretta, e quindi conteneva sviste e lacune; un'altra era stata fatta da un amico di vista debole e di mano malferma, e perciò mostrava qua e là che si era scambiata una parola con un'altra somigliante, ed era poi riscritta con una calligrafia così tremolante che, a leggerci sopra, questi scambi potevano accrescersi in gran numero; una terza copia sarebbe stata ben fatta ma disgraziatamente rimase lunghi anni negletta in un ripostiglio, ove fu macchiata dalla pioggia, lacerata dai topi, e ridotta in uno stato per metà inservibile.

Le traduzioni avevano poi altri difetti. Quella in russo, ad esempio, era stata fatta da un amico moscovita di passaggio in Italia, che però aveva tradotto assai liberamente: di rado egli aveva seguito la parola, spesso si era accontentato di una certa corrispondenza di concetti, e talvolta - non contenendosi nel suo ufficio di traduttore - aveva inserito qua e là nel testo russo piccole spiegazioni, brevi richiami, e anche qualche riflessione personale.

La traduzione inglese, al contrario, ci era proposta di esser fedelissima, ma troppo spesso era riuscita sbagliata; ne era autore un rigido e grave londinese che, conscio della sua debolezza in italiano, non si sentì tranquillo se non quando si vide dietro il riparo di un autorevole vocabolario: e così gli successe di tradurre il nome merluzzo, che capitava una volta nella lettera, come se significasse piccolo merlo (l'autorevole vocabolario di cui si serviva, era quello di J. E. Wessely, «19a ediz. interamente rifatta» da G. Rigutini e G. Payn, Milano, Hoepli, 1902; ivi egli lesse a pag. 100, che merluzzo significa young blackbird).

La traduzione in arabo, invece, fu fatta da un italiano, sì, ma che era alle sue prime anni con la lingua del Corano e che fece quella traduzione giusto per esercitarsi: è facile immaginarsi che cosa saltò fuori. E così, più o meno, per tutte le altre.

Pochi anni fa, il valore documentario di quella lettera crebbe a dismisura e se ne ricercò dappertutto, in Italia e all'estero, il testo esatto per vedere con precisione ciò che essa diceva. Naturalmente da principio ognuno che ne aveva una copia, o una traduzione, ritenne di possedere il testo esatto; ma poi, confrontate le varie copie e messe a riscontro con le diverse traduzioni si constatò che era necessario ricostruire attraverso tutti questi documenti il testo genuino, per quanto era possibile, apprestando un'edizione critica. E l'edizione critica fu fatta, naturalmente in Germania, a cura di un certo professor Deutschmann; essa risultò dalla collazione delle varie copie italiane, e insieme anche dal confronto con le varie traduzioni esistenti: quelle lezioni che apparvero raccomandate da un maggior numero di copie o di traduzioni furono accolte nel testo, le altre furono relegate in nota. Così la lettera ad Anthropos fu ricostruita, e se ne ebbe un testo complessivamente sicuro: sebbene qua e là rimanessero ancora delle incertezze, delle piccole lacune, e altri insoluti problemi di vario genere, che il prof. Deutschmann con i documenti a sua disposizione non riuscì ad eliminare.

La lettera, criticamente edita, fu ricercatissima, fece il giro di tutto il mondo, e i dotti cominciarono subito a pubblicarne commenti totali e dilucidazioni storiche parziali. Si ebbero dei risultati molto interessanti. La lettera era d'un italiano a un italiano; trattava di cose e fatti italiani d'attorno il 1870, allorché fu scritta la lettera; usava anche spesso quella fraseologia familiare che noi italiani impieghiamo in una conversazione amichevole. Perciò qualunque commento o dilucidazione richiedeva evidentemente una buona conoscenza, non solo dei fatti e delle cose italiane d’attorno il 1870, ma anche della terminologia politica e della fraseologia familiare di quei tempi.

Invece, che avvenne? Ecco qualche esempio a caso.

Un professore di una università del Giappone, trovando spesse volte nominato nella lettera un certo Garibaldi, sostenne che questo personaggio era un influentissimo cardinale: e non campò mica in aria la sua identificazione, giacché lunghe ricerche da lui fatte nelle biblioteche giapponesi lo autorizzarono ad affermare con ogni sicurezza che quel tal signor Garibaldi vestiva di rosso, precisamente come i cardinali.

Un altro commentatore, appartenente a un istituto superiore del Siam, notò nella lettera, ripetute più volte, le seguenti frasi: il Pio IX del 1848 e della Costituzione, e altrove, il Pio IX del «Non possumus» e del 1870; dopo lunghi e pazienti studi egli concluse che erano esistiti due personaggi storici chiamati Pio IX: uno, papa legittimo, aveva regnato a Roma; l'altro era morto, poco dopo, come antipapa a Gaeta, da dove era riuscito ad impadronirsi di Roma espellendone il legittimo Pio IX ed occupandone il seggio.

Un filologo australiano, invece fece oggetto delle sue esperte ricerche alcune espressioni alquanto oscure che aveva rinvenute qua e là nella lettera; riuscì, fra l'altro a fissare il significato di una sibillina frase della lettera che diceva il conte Y ha le mani in pasta ed è un vero accidente: la scoperta fu che quel personaggio doveva essere un conte caduto in miseria, e perciò costretto a maneggiare la pasta facendo il fornaio; inoltre, se egli era chiamato un vero accidente ciò dimostrava che quel personaggio non aveva più nella vita politica italiana alcuna «sostanziale» importanza, giacché il termine accidente significava – e qui il dotto filologo australiano citava in prova una congerie di testi di S. Tommaso e d'altri scrittori medievali - quod non pertinet ad substantiam (ciò che non compete alla sostanza).

Anche più erudito si mostrò il direttore di un'accademia dell'Africa centrale, che in una conferenza tenuta sotto un bel palmizio alla temperatura di 50 centigradi, ricorse ad argomenti sia storici che filologici per stabilire con sicurezza a che cosa alludesse il termine carbonari, che ricorreva più volte nella lettera. In primo luogo egli demolì in maniera definitiva la opinione, comunemente seguita, d'un professore cinese, secondo cui i carbonari sarebbero stati una specie di casta mandarinale, contraddistinta da un lungo paudamento di seta nera brillante come carbone, da cui il nome dei suoi membri. Niente affatto: l'accademico africano dimostrò invece che il termine doveva aver conservato il suo significato etimologico originario, e che si trattava di una vera corporazione di fabbricanti di carbone; ricorrendo poi ad argomenti storico-geografici spiegò in maniera del tutto convincente che la straordinaria potenza politica della corporazione era dovuta al fatto che l'Italia, paese freddissimo, aveva un bisogno assoluto di carbone, e perciò quei che lo producevano tenevano in mano le chiavi della vita economica e sociale.

Infine, un dotto monaco buddista, che nel suo nevoso altipiano del Tibet si occupava molto di studi folkloristici, mise bene in rilievo alcune curiose usanze italiane attestate dalla lettera, ad esempio quella di lavarsi ogni giorno e perfino di stare delle ore intere, durante i mesi di luglio e agosto, tuffati nelle onde sulla spiaggia del mare, e ne concluse che gli italiani erano resistenti al freddo molto più che i Tibetani, i quali facevano a meno di lavarsi e nei mesi di luglio e agosto preferivano stare attorno e un buon fuoco; confrontò anche l'usanza delle donne italiane di avere un solo marito con quella delle donne tibetane di averne fino a una dozzina, e vi fece sopra alcune considerazioni demografiche.

E qui, la storiella è finita.

Il lettore probabilmente dirà che è una favola di cattivo gusto. Il gusto lo lascio giudicare a lui: a me preme far notare che non è punto una favola; è invece una parabola, e una parabola tanto verosimile, che è veramente avvenuta, benché sotto altro nome, in altre circostanze, e mutatis mutandis.

La lettera ad Anthropos rappresenta la Bibbia. Le vicende del resto della lettera corrispondono, in sostanza, alle vicende del testo della Bibbia. I commenti e le dilucidazioni che hanno dato della lettera i dotti, rassomigliano in modo impressionante a molti - non tutti - commenti studi apparsi sulla Bibbia nelle ultime decine d'anni; con la differenza che le ricostruzioni storiche d'indole giapponese e siamese sono il campo preferito degli studiosi tedeschi e di chi ne segue il metodo; invece, le dilucidazioni varie di tipo australiano, africano e tibetano sono un campo assai più vasto, perché aperto a tutti gli incompetenti presuntuosi: nel cui numero entrano non soltanto «la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito», e compagnia bella, descrittaci da Girolamo, ma molti e molti altri»(1).

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(1) Bibbia e non Bibbia, Brescia, Morcelliana, 19463, pp. 30-35

lunedì 3 agosto 2009

La lettura della Bibbia di Giuseppe Ricciotti

L’uso di leggere i singoli libri della Bibbia, anche prima che fossero riuniti insieme, è antichissimo sia nel giudaismo sia nel cristianesimo. Presso i Giudei le versioni greche ed aramaiche sorsero appunto per rendere intelligibile il testo della Bibbia ebraica. La lettura sinagogale portò ad una divisione del testo biblico in tante parti, ognuna delle quali doveva esser letta in un sabato o giorno festivo: da principio il Pentateuco, oggetto principale della lettura, fu diviso in 167 ordini (sĕdhārîm), corrispondente alle letture di un triennio; più tardi fu diviso in 54 sezioni (pārāšoth), corrispondenti alla lettura d’un solo anno. Successivamente al passo del Pentateuco si cominciò poi a leggere un passo (haphtārāh) dei «Profeti»; più tardi ancora si riservarono a determinate feste la lettura dei Cinque Volumi o Mĕghillôth, ossia il Cantico dei Cantici a Pasqua, Rut a Pentecoste, le Lamentazioni all’anniversario della distruzione di Gerusalemme, l’Ecclesiaste ai Tabernacoli, ed Ester alla festa dei Pûrîm.

Dall’uso delle sinagoghe si trasmise alle prime adunanze cristiane la lettura di passi del Vecchio Testamento, i quali erano scelti specialmente dai libri profetici, come quelli che più chiaramente avevano preannunciato il futuro Messia; ben presto, a tali passi profetici, si aggiunse la lettura di passi dei Vangeli e delle Lettere. Ma una norma stabile e uniforme per la qualità e quantità dei passi biblici da leggersi nelle adunanze cristiane non ci fu, dipendendo ciò dalle costumanze regionali oltreché dal criterio dei singoli vescovi che presiedevano a quelle adunanze; tuttavia, in seguito, specialmente dal secolo VI, si delinearono consuetudini e leggi il cui ulteriore sviluppo e fissazione si confondono con la storia delle varie liturgie cristiane orientali e occidentali.

Anche la lettura privata della Bibbia fu assai diffusa, sia nel giudaismo sia nel cristianesimo. I rabbini, le cui sentenze sono conservate nella Mišnāh, nel Talmud e negli altri scritti giudaici, concentravano 1’ operosità loro e delle loro scuole nello studio della Tôrăh (Legge), intendendo con questo termine specialmente la tradizione orale, riconnessa però con la legge scritta, in primo luogo il Pentateuco; fra altre, una norma rabbinica insegna che «l’uomo non deve ritrarsi dalla casa di studio (della Legge) e allontanarsi dalla parola della Tôrăh neppure all’ora della morte» (Šabbāth, 83b), perché «maggiore è lo studio della Tôrăh che la costruzione del Tempio» (Mĕghillāh, 16b). Vi furono tuttavia, nel giudaismo dell’era volgare, talune restrizioni prudenziali, le quali furono provocate o da abusi che si andavano diffondendo o da particolari difficoltà esegetiche che s’incontravano nella lettura di certi libri ; così sappiamo che il Cantico dei Cantici e alcuni passi del Genesi e di Ezechiele non si potevano leggere da un giudeo che non avesse raggiunto l’età sacerdotale, ossia i 30 anni (Girolamo, Praef. libr. I in Ezech.: PL 25,17), anzi che neppure la lettura pubblica del Cantico dei Cantici era permessa ancora ai princìpi del sec. V (Teodoro di Mopsuestia, in Mansi, IX, 227; cf. Origene: PG 13,63).

Anche presso i cristiani la lettura privata della Bibbia, molto raccomandata e assai diffusa, divenne campo di abusi. Egualmente, ai princìpi del secolo V, Giovanni Crisostomo raccomandava ai suoi fedeli di non limitarsi ad ascoltare la lettura dei libri santi fatta in chiesa, ma di rileggerli a casa propria per tornare a meditare su ciò che fugacemente si era ascoltato, e approfondirne il senso (PG 51,90); d’altra parte Girolamo si lamenta del carattere irriverente e plebeo che hanno preso al suo tempo le discussioni sulla S. Scrittura, la quale «è ciò che la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito, il cavillatore parolaio e in genere tutti quanti, si arrogano, lacerano, insegnano, prima d’averla imparata» (Ep. 53, Ad Paulam) Ma, nonostante siffatti abusi, non vi sono tracce di provvedimenti presi dalla chiese per limitare la lettura privata della Bibbia fino al medioevo.

Nel 1199 Innocenzo III scrive al vescovo di Metz incaricandolo d’investigare l’origine e l’intenzione di talune traduzioni in volgare che stavano diffondendosi in quella regione, senza però condannare in genere la lettura della Bibbia in volgare (PL 214, 695-99). Vere proibizioni delle Bibbie volgari si ebbero poco dopo, ma sempre limitate ad alcune regioni e senza l’intervento della Sede romana: il Concilio di Tolosa del 1229 ne proibì l’uso ai laici in occasione delle lotte contro gli albigesi e i valdesi (in Mansi, XXIII, 197, can. 14); l’assemblea tenuta nel 1234 a Tarragona in Spagna, sotto Giacomo I, promulgò una proibizione analoga riguardante anche i chierici (in Mansi, XXIII, 329); il Concilio di Oxford del 1408 emanò eguale proibizione in occasione del movimento di Wyclef (in Mansi, XXVI, 1038).

Per l’Italia non si ebbero proibizioni di sorta; e quanto ivi fosse comune, prima del movimento luterano, l’uso di leggere la Bibbia volgare è dimostrato, per la regione veneta, da una prefazione di Isaia da Este, la quale informa che tutta la Bibbia si cantava nei crocchi di donnicciuole che filavano. Anche in altre regioni d’Italia consta che, prima di Lutero, era usuale la lettura della Bibbia in volgare (cf. Archivio Storico Italiano, Firenze 1842, App. I, p. 334). Senonché, la rivoluzione religiosa del protestantesimo provocò per reazione misure restrittive alla lettura della Bibbia presso i cattolici. Dopo prescrizioni locali emanate in Inghilterra, Paesi Bassi, Francia e altrove, la Sede romana intervenne per la prima volta nel 1559, allorché l’Indice di Paolo IV proibì di stampare e detenere le Bibbie in volgare senza il permesso del S. Uffizio; la commissione di questo permesso fu poi demandata ai vescovi locali dall’Indice di Pio IV del 1564 (regole 3 e 4), ma in seguito fu ancora revocata alla S. Sede. Sembra tuttavia che il permesso fosse concesso con notevole larghezza. Divenuto poi remoto il pericolo del protestantesimo, la Congregazione dell’Indice nel 1757 permetteva le versioni in volgare della Bibbia approvate dalla Sede romana o pubblicate sotto la sorveglianza dei vescovi con annotazioni estratte da autori cattolici; e la sostanza di questa disposizione è quella ancora vigente [1954], passata nel Codex Iuris Can., can. 1391. Il decreto del 30 aprile 1934 della Pontificia Commissione Biblica prescrive che le versioni in volgare delle Epistole e dei Vangeli da leggersi nelle chiese per il popolo siano fatte, non sui testi originali ebraici e greci, ma sui testi approvati per la liturgia della Chiesa; quindi, per il rito romano, sulla Volgata latina.

Il frequente uso della Bibbia fece sorgere costumanze varie, spesso encomiabili, talvolta strane, non di rado riprovevoli. Per lo stesso volume materiale della S. Scrittura Giudei e cristiani ebbero sempre particolare venerazione: come nelle sinagoghe il volume della Legge era ed è conservato in un’arca apposita, così nella liturgia cristiana è adibito con onori speciali: nel rito bizantino gli onori tributati al libro dei Vangeli sono pari a quelli per l’Eucaristia.

Egualmente per rispetto i volumi biblici consunti dall’uso non erano distrutti dai Giudei, bensì deposti in un luogo sotterraneo vicino alla sinagoga, la cosiddetta gĕnîzāh, ove restavano inoperosi per secoli. Nei concili cristiani già dal sec. V si usò porre al centro, come su seggio d’onore, il volume della Bibbia; altrettanto si faceva nei tribunali, specialmente col volume dei Vangeli. Uso devozionale presso i Giudei fu quello delle «filatterie» con alcuni passi della Bibbia (Es 13,1-16; Dt 6,4-9), applicate durante la preghiera sulla fronte e sul braccio sinistro (cf. Dt 6,8); altre pergamene analoghe erano sotterrate sotto le soglie delle case giudaiche (mĕzûzôth).

Presso i cristiani si usò portare al collo un rotoletto in cui erano scritti passi dei Vangeli: tale costumanza è già attestata nel sec. IV, e trova la sua corrispondenza presso i musulmani nei passi del Corano portati in dosso egualmente per devozione. Si usò anche porre il volume dei Vangeli presso il capezzale dei malati, oppure recitare presso di loro Gv 1,1-14; questo prologo era anche recitato in circostanze importanti della vita, o in gravi pericoli: ad esempio, si narra che Cristoforo Colombo lo recitasse quando in navigazione era còlto da gravi tempeste. Altri passi della Bibbia, e specialmente dei Salmi, erano ritenuti appropriati a varie circostanze liete o dolorose della vita.

Si consultava la Bibbia anche per prendere qualche importante decisione, per conoscere l’avvenire, scoprire cose segrete, e scopi simili: per praticare queste sortes divinatoriae si formò a poco a poco tutto un formulario riguardante il modo di aprire il volume biblico, di leggerlo, di trarne le conclusioni, etc. Oltre a questi abusi per superstizione non mancarono quelli per irriverenza: presso gli antichi Giudei è attestato l’abuso di canterellare il Cantico dei Cantici nei simposi, come una canzonetta profana (Tôsephtā’, Sanhedhrîn, XII, 10); presso i cristiani, specialmente all’età del Rinascimento, si diffuse molto la costumanza di servirsi di passi della Bibbia per comporre barzellette, parodie, pasquinate e simili cose, sempre irriverenti e spesso invereconde: contro cui si oppose il Concilio di Trento (Sess. IV, De edit. et usu ss. librorum). Ma, anche più tardi, stramberie non meno incongruenti potevano ancora udirsi da taluni predicatori, che contorcevano parole e sentenze della Bibbia per applicarle a loro fantastico arbitrio: come si racconta di quel predicatore contemporaneo del Galilei che, volendo impugnare le ricerche astronomiche di costui, gli applicò il passo Viri Galilaei, quid statis aspicientes in caelum? (At 1,11).

La Bibbia nella letteratura

L’influenza esercitata dalla Bibbia sulle varie letterature e sulle arti figurative è superiore all’influenza di qualunque altro libro. Presso i Giudei, in realtà, questa influenza fu assai limitata per ragioni particolari: nel campo letterario, infatti, la produzione giudaica posteriore al cristianesimo e fino al medioevo fu in massima parte giuridico-tradizionale, e sotto tale aspetto essa potrà forse apparire come tutto un ampio lavorio di esegesi biblica secondo le norme del fariseismo, ma non offre alcuno di quegli elementi inventivi che costituiscono la letteratura d’arte; nel campo poi delle arti figurative, gravissimo ostacolo per i Giudei fu sempre l’antica proibizione di produrre immagini di essere vivente, sia di uomo che di animale (Es 20,4; Dt 4,15-19), per cui l’ebraismo ortodosso non poté coltivare scultura e pittura, salvo che a scopo ornamentale secondario. Tale proibizione fu spesso violata, e recenti scavi hanno riportato alla luce ruderi di sinagoghe, costruite in Palestina e fuori (Dura Europo) ai primi tempi dell’era volgare, nelle quali appaiono pitture di personaggi biblici; ma siffatti casi rappresentano sempre delle eccezioni, le quali sotto l’influsso della circostante cultura greco-romana saranno state più o meno tollerate, ma non furono mai approvate dal giudaismo ortodosso.

I primi cristiani, provenienti in massima parte dal paganesimo, mentre non avevano tale pregiudiziale contro le raffigurazioni artistiche, ricorsero spontaneamente alla Bibbia anche come fonte d’ispirazione per composizioni letterarie. Ma la letteratura cristiana pervenuta a noi dai primi tre secoli, sebbene materiata di temi biblici, ha carattere esegetico od omiletico: rare le composizioni poetiche, di cui talune gnostiche. Col sec. IV fiorisce in pieno la lirica cristiana: in Occidente trattano argomenti biblici Giovenco, Prudenzio, Paolino, Sedulio, Mario Vittore e qualche altro; in Oriente degno di menzione fra i Greci è il solo Gregorio di Nazianzo, mentre fra i Siri poeta d’altissima levatura è Efrem Siro. Ampia sintesi delle vicende del genere umano dal punto di vista biblico e apologetico è il De civitate Dei di s. Agostino. Di qualche importanza saranno in seguito alcuni poeti latini (Aratore, Venanzio Fortunato), mentre fra i Greci eccelleranno Romano il Melode, Giorgio il Piside ed altri.

Col sorgere e formarsi delle varie letterature volgari in Europa, più o meno dipendenti dalle forme classiche e dalla tradizione cristiana, la Bibbia appare subito quale loro principale animatrice: ispirati direttamente dalla Bibbia sono il poeta anglosassone Caedmon (sec. VIII) nelle sue produzioni, l’Heliand e altre composizioni della primitiva poesia tedesca (sec. IX) e francese (sec. X). Argomenti biblici trattavano spessissimo quei «misteri» e rappresentazioni sacre, da cui trae le sue prime origini il teatro moderno nelle varie nazioni. Viene poi, in Italia, Dante, la cui Commedia dipende per concetti e per espressioni dalla Bibbia molto più di quanto i moderni commentatori siano soliti di fare apparire.

Col Rinascimento la Bibbia esercita tuttora ampia influenza, sebbene le sue derivazioni siano spesso travisate, rivestite d’estranee espressioni classiche o appaiate con concetti paganeggianti. Il protestantesimo, in forza dei suoi princìpi, riporta a un’adesione totale alla Bibbia anche nei componimenti poetici, che sembrano tanto più fedeli alla nuova dottrina quanto più appaiono materiati di Bibbia e nel pensiero e nella parola: le poesie religiose di Lutero e il Paradise Lost del Milton sono tipiche produzioni di questa tendenza, fra molti altri scritti tedeschi, inglesi e francesi. La Controriforma cattolica contrasta al protestantesimo anche su questo campo, ma in maniera spicciola ed occasionale, togliendo alla Bibbia forme e concetti (impiegati specialmente nell’epica contemporanea), ma senza produrre opere rappresentative di particolare rilievo.

I poemi latini cattolici De partu virginis (1526) del Sannazzaro e la Cristiade (1535) di M.G. Vida, fanno parte a sé. Biblica è più tardi la migliore produzione del Klopstock, non solo per la Messiade (1772) ma anche per i suoi drammi; a lui contemporaneo è in Italia Alfonso Varano, le cui bibliche Visioni furono molto apprezzate ai suoi tempi, specialmente dal Monti. Il quale, a proposito della Bibbia come opera letteraria, esprimeva questo giudizio: «Io amo dunque David più che gli altri poeti, e nessuno vorrà, credo, condannare questa mia parzialità. Omero, Pindaro, Virgilio sono grandi e maestosi: ma David (senza parlare dei Profeti, specialmente di Isaia), David è qualche cosa di più. Chi non si accorge della differenza che passa tra questo e quelli, tanto peggio per lui. Questo è un affare di sentimento, e chi mal si convince da se medesimo, è inutile che cerchi le altrui ragioni».

II Romanticismo, per il suo stesso spirito, attinse a piene mani dalla Bibbia, in Italia e fuori; biblici d’ispirazione, e in parte anche di espressione, sono gli Inni sacri del Manzoni, che, a giudizio del Carducci, segnano il livello più alto della lirica italiana dell’Ottocento.


Il testo è tratto dalla voce «Bibbia», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-1954, vol. II, coll. 1570-1577.

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